Un convegno e un libro a 100 anni dalla nascita dell’importante scultore e scienziato trissinese
di: Gino Prandina, 15 nov 2023.
Conobbi Tito Perlotto prima di tutto attraverso le sue opere artistiche, la prima nella chiesa di San Pietro di Trissimo: una grande lastra in rame sbalzato ad altissimo rilievo, una Deposizione firmata “Tito”. Poi seppi che il disegno era di Pino Castagna, autore pure del monumentale crocefisso bronzeo. Di lì a poco commissionarono a Tito una statuetta in bronzo a sostituire un agnello portabandiera asportata dalla cuspide del tabernacolo. Di Tito artista conobbi presto la produzione: balaustre in ferro battuto o cancelli fioriti, vassoi in argento sbalzato, come anche graziosi disegni a china. Nella chiesa di Sant’Andrea, c’erano alcune graziose fusioni in bronzo come le cancellate del presbiterio o i portalampade con motivi eucaristici, oppure chi fosse l’autore del possente san Michele Arcangelo che vegliava dalla cuspide del campanile: mi dicevano è Antonio Lora… poi seppi che era il nonno di Tito.
Tito fu artista dello sbalzo e del casello ma fu pure docente universitario di chimica pura, il primo a sintetizzare le diazepine”: Tito inventò il famoso Valium.
Lo incontrai per la prima volta nel 1987, credo nel suo piccolo laboratorio domestico o nel salotto dove conservava le opere. C’erano molti disegni e sculture di artisti che ben conoscevo, come Augusto Murer, Pino Castagna, Aligi Sassu e altri famosi.
Tito era davvero un signore singolare, che ricordo per il senso acuto di osservazione. I miei insegnanti universitari ripetevano all’infinito che “guardare è più importante del vedere”. La prima intenzione artistica, che chiamavano kunstwollen, è proprio l’intenzionalità di chi sa guardare, cioè circondare di attenzione. Con questo termine tedesco, Alois Riegl indicava il gusto o il fattore predominante di un singolo artista, da cui deriva il concetto di autonomia di ogni forma d’arte. Il Kunstwollen descrive le varie modalità di percezione del mondo esterno, e le interpretazioni soggettive che gli artisti ne ricavano.
Ricordo le sue grandi mani che sapevano stringere calorosamente quelle degli altrui, e mi chiedevo come fosse possibile che riuscissero a realizzare incisioni o sbalzo con minuzia microscopica, o particolari di perizia ammirevole.
Ricordo pure i suoi problemi di udito: mi chiedeva spesso di ripetere… finchè mi disse: “vede quell’ incudine reverendo?… purtroppo a forza di martellare i metalli le frequenze acute del mio udito se ne sono andate”.
Tito non amava “vestire ricercato”. Se da un lato rimanevo sorpreso per l’enorme quantità di denaro che i ragazzi di Trissino spendevano per gli abiti, soprattutto quelli da esibire in discoteca, Tito invece amava vestire semplice, quasi dimesso, che ricordava più le mise del lavoratore. Da questo punto di vista Tito detestava ogni forma di esibizionismo, e prediligeva quel modo pratico, oggi si direbbe casual, che gli permetteva di passare disinvolto dal laboratorio chimico all’orto, dalla cattedra all’ufficio, dai corsi di ripetizione al tavolo da disegno, dalla forgia alla biblioteca.
ARTE
- Non è facile descrivere lo stile, l’indirizzo iconografico che Tito prediligeva; ma dai molti dialoghi ricordo il suo decantare lo splendore, l’armonia e la verità della natura. Già lo stile floreale o Liberty aveva tradotto la lezione naturalistica in un segno sinuoso, elegante, alla Gaudì. Anche Tito amava lo stile naturalistico, che attingeva quasi esclusivamente dallo studio della natura di cui decantava la perfezione. Io amavo disegnare le calle di Warhol, i fiori di eringio di Albrecht Durer, o più semplicemente i fiori del cardo… per via di Itten e della scuola della Bauhaus. Tito prediligeva i gigli, i fiori profumati di calicanto, i rami di pesco o ciliegio. Il calicanto è il primo fiore che spunta nella stagione fredda, come presagio della primavera:
2. Tito era un contemplativo, e dalla contemplazione delle cose naturali, da quelle più semplici alle più complesse, sapeva giungere a sintesi teoriche oppure a riproduzioni in termini estetici. Ammirava la bellezza, e anche un fiocco di neve gli bastava per trarne ispirazione. Ad esempio, ricordo i disegni per un ostensorio che per lungo tempo abbiamo tentato di progettare, a partire da alcune foto di cristalli di neve che aveva fotografato al microscopio. Di questo lavoro rimangono numerosi bozzetti nel mio archivio e nel suo.
ARTE SACRA
1 . Un giorno mi mostrò alcuni disegni di candelieri e altre suppellettili firmati da Claudio Granzotto. Erano i disegni preparatori per la grotta di Lourdes di Chiampo. Oggi sono le reliquie di un Beato ma a quel tempo, con grande sorpresa, scoprii che Tito studiava con grande attenzione fra’ Claudio artista e scultore. Anch’io ammiravo la produzione di fra’ Claudio, anche per un certo gusto Liberty che da noi si chiama anche floreale: un filone che Claudio Riccardo aveva sviluppato fin dai tempi dell’Accademia, e che a mio avviso aveva preso in prestito dal grande Adolfo Wildt.
2. Con Tito iniziai la produzione argentiera destinata al culto. Per vari oggetti di carattere liturgico avevamo intrapreso una forma di collaborazione produttiva: Tito metteva la sua esperienza in campo tecnologico ed io disegnavo modelli originali, che lui pareva apprezzare. L’obbiettivo era quello di realizzare vari oggetti di pregio come suppellettili e reliquiari. In particolare ricordo quello di Gaetana Sterni, Beata bassanese, fondatrice delle suore della Divina Volontà. Per la beatificazione della Fondatrice, le suore ci commissionarono il reliquiario papale. Su quel reliquiario, da donare a papa Woytila il giorno della beatificazione, ci applicammo lungamente. Ne uscì un prototipo-modello, che producemmo in ferro… e che poi in extremis, qualche giorno prima della solenne celebrazione in piazza San Pietro, Tito fece placcare in argento per consegnarlo in tempo al Pontefice. La seconda edizione, quella che doveva essere la definitiva, quella sì in argento e pietre preziose, ora si trova nella cattedrale di Quito in Ecuador. Il papa ci scrisse complimentandosi con noi per “l’artisticità” del manufatto. Il Postulatore della sacra Causa ne rimase invece inorridito quando si accorse che s’attaccava una calamita…
Con Tito realizzai per alcuni anni i calici dei preti novelli della diocesi di Vicenza. Tutto sorse dalle nostre infinite lamentazioni sulla scarsissima qualità dei prodotti di arte sacra, come anche dei prezzi stratosferici per prodotti dozzinali. Così, quasi per sfida, tentammo di mettere in produzione alcuni disegni che avevo da parte. Anche oggi, rivedendo quei prototipi, li trovo estremamente attuali. Di tutti quei calici io ho conservato il modello e Tito ha conservato le matrici in acciaio che si utilizzavano per la tornitura delle lastre d’argento 925”. Infatti alcuni elementi li facevamo “stirare a mano”, al tornio di alcuni anziani artigiani di Sarcedo. Tito decantava le proprietà fisiche dei metalli, e il legame atomico di argento e rame, che permetteva di modificarne l’adesione fisica per mezzo della semplice pressione. So cheaveva conservato nel suo laboratorio alcuni modelli da studio in rame di coppe e basi. Per le impugnature dei calici Tito mi obbligò a fare il modellista: lui mi forniva le cere e io con pazienza, mediante alcuni punteruoli e piccoli saldatori, scavavo nella cera catalizzata a colofonia per mezzo dei suoi segreti processi alchemici – fino a realizzare i prototipi per le fusioni “a cera persa”. Per lungo tempo abbiamo tenuto segreta la nostra produzione, finché scoprimmo che alcuni nostri modelli originali erano già stati copiati da una famosa azienda d’”arte sacra”, in realtà commercianti di prodotti industriali seriali.
6. Nel 1991, per la La parrocchia e l’Hospitale di San Nicola di Olmo realizzammo un reliquiario per alcuni resti del Patrono, recuperati dalla basilica di San Felice in Vicenza: ancor oggi mi pare interessante per i richiami all’arte bizantino-barbarica: un reliquiario a lanterna e un piccolo tabernacolo a finestrelle vetrate e cuspidato in argento. Per la chiesa di San Nicola, al di sotto della bella pala del Santo, opera di Bepi Modolo, disegnai la porticina in bronzo fuso e vetro per il piccolo vano scavato nel marmo. A Tito l’impegno di realizzare materialmente sia la fusione della porticina – una specie di grata alla maniera degli antichi sacrari – e il reliquiario.
7. Tito era abile nel riprodurre elementi naturalistici come rami fioriti, fiori e foglie in ferro battuto. Nei secoli scorsi il ferro battuto, l’ottone o più raramente il rame, furono utilizzati per portalampade, cancelli, divisori, o specie di bracci per lampade devozionali a sospensione: come applicare oggi tale abilità nella cd. “arte per il culto”?Fra le varie essenze la tradizione ebraica fa riferimento all’ulivo e al cipresso, alberi simbolici: Pensai che un albero d’olivo stilizzato poteva diventare ottimo supporto per la cd. Lampada della Presenza, utilizzata a segnalare in una chiesa le specie eucaristiche conservate nei tabernacoli. Disegnai vari alberelli di ulivo con rami frondosi aperti alla sommità, fra i quali inserire la tipica lampada rossa. Oggisi trovano in numerose chiese della diocesi e anche fuori Vicenza.
8. Vari benefattori chiedevano come dono per i loro sacerdoti oggetti d’arte come ricordi pregevoli. Fra questi ricordo volentieri una sorta di “calice nel calice”, adatto a distribuire l’Eucaristia “sotto le due specie”. Lo eseguimmo per la parrocchia di Breganze:si trattava d’una grande pisside ove all’interno disegnai un alloggiamento per un calice. Tito lo realizzò in argento, con alcuni particolari in oro. Sarebbe opportuno riproporre, almeno per alcune celebrazioni importanti, la comunione dei fedeli al pane e al vino, almeno per intinzione. Nel periodo d’emergenza COVID sono scaturite soluzioni talvolta sconcertanti, (come ad es. il distributore automatico di particole o altre “diavolerie” del genere):penso che ritornare al semplice gesto della comunione “per intinzione” sarebbe augurabile.
9. Tito aveva una particolare predilezione per i fonti battesimali, altari e portali. Il suo stile narrativo e l’approccio figurativo ai temi evangelici si tradussero in vari esempi di coperture cupolate, in formelle, paliotti, in argento, rame sbalzato o fuse in bronzo o ferro (sono interessanti quelli di Maglio di Sopra, Monte Berico, Marostica). Talvolta gli chiedevano interventi di restauro o di riparazione, a cui si applicava volentieri mettendo a frutto le conoscenze metallurgiche e sulle tecniche antiche di saldatura. Mi parlava con orgoglio dell’antico metodo etrusco del “ferro fuminatorio”, una sorta di pipa per la granulazione dell’oro e dell’argento.
10. Fra gl’interventi di restauro ai qualiil Maestro si applicò mettendo a frutto le abilità tecnico-alchemiche fu il restauro del famoso Ostensorio di Tunisi. Bisognava accettare la sfida di riportare allo splendore originario quello che – a causa dell’intolleranza religiosa di stampo terroristico – era ridotto ad un ammasso di rottami: fu gettato a terra, colpito a martellate e calpestato…. Il manufatto, in “stile Novecento”, di misure considerevoli (circa 50 centimetri), era in parte d’argento e parte d’ottone dorato, con caratteristici decori a smalti cloisonné. Veniva utilizzato nella cattedrale cattolica di Tunisi per le ostensioni prolungate dell’Eucaristia a cui la popolazione periodicamente occorreva. Io vidi i pezzi in casa di Tito, pietosamente raccolti in una grande scatola, che davvero avrebbero sfidato qualsiasi artigiano e artista. Bisognava ricomporlo, integrarlo e restaurarlo. Si trattava di riformulare la raggiera, rimontare e integrare l’impugnatura (di cuialcune parti erano inservibili), ricollocare i due vetri trasparenti dell’alloggiamento. L’intervento più complesso riguardava il restauro del basamento, per la molteplicità di decori a smalti cloisonné. Bisognava intervenire mediante diverse tecniche artistiche. Tito si dedicò a lungo alla ricomposizione e integrazione delle parti metalliche. Poi venne in aiuto la Scuola di restauro di Vicenza per le fusioni di smalti policromi e altri interventi. Lo Stato Italiano aveva commissionato il restauro come segno di amicizia e di civiltà: attualmente l’ostensorio è ritornato in uso nella cattedrale di Tunisi.
Ritengo che la vocazione dell’artista è: ricomporre ciò sembra perduto. Anche tra i “Fioretti” del beato Claudio Granzotto si ricorda l’episodio in cui nel convento era andata semi-distrutta una statua a cui i frati erano particolarmente affezionati. Erano centinaia di pezzi caduti a terra in totale scompagine. Proprio la “pazienza di un santo” riuscì, nel giro di varie settimane,a restituire l’opera. C’è chi distrugge pensando così di rendere gloria a Dio, ma in realtà bestemmia il suo nome e la dignità umana. E le testimonianze più alte di umanità si esprimono nell’arte e nella cultura. Spero che la fatica di tanti artisti e uomini di scienza come Tito possa ricomporre quell’armonia, quel “sogno di “bellezzache salverà il mondo” .GP