un ricordo del sacerdote artista che trasformava i reperti di morte in strumenti di speranza

Il 30 settembre scorso è morto don Adriano Campiello, sacerdote e artista, noto per aver trasformato in scultura i reperti della Grande Guerra. Fu cappellano militare in gioventù, e ben conosceva la guerra e suoi strumenti. Scrisse: «la Prima guerra mondiale si combatté nelle trincee, palmo a palmo». Ma come cristiano e come sacerdote penso gli sovvenisse il profeta Isaia e la sua profezia rivoluzionaria: «Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci». Ma come concretamente operare questa trasformazione? (…) Un giorno vide due ragazzi che scendevano dal Monte Pasubio con in mano una baionetta e un elmetto: erano i cd. “recuperanti” che di quella attività, spesso pericolosa, avevano fatto un lavoro… o dall’immenso “cantiere” abbandonato sulle nostre alpi racimolavano almeno qualche soldo. E chiese: «C’è ancora del materiale a distanza di tanto tempo?» Così che dopo qualche decennio in canonica c’erano 160 quintali di schegge e reperti metallici di guerra. Da quei pezzi di cannone, scudi di mitragliatrici, canne di fucile, elmi, reticolati di trincea nacquero centinaia di sculture ad illustrazione del Vangelo. Dal titolo d’una sua mostra cogliamo il senso del suo operare: “da frammenti di morte a racconti di vita”. Quelli che furono strumenti di morte – e che don Adriano ben conosceva per la sua primitiva missione – diventarono messaggi di speranza. L’artista su quelle masse informi lesse le “forme evangeliche”. È la “kunstwollein” (Alois Riegl), la “volontà di operare artisticamente”: «Io guardo una scheggia e questa mi parla, mi ricorda un episodio della Storia della Salvezza e l’opera prende forma, non so bene neppure io come. E’ un’ispirazione di cui io stesso mi stupisco». Così descrisse l’intuizione di quel tempo: «con i tosi della parrocchia abbiamo iniziato a raccogliere un sacco di roba, fino a fare anche un museo che abbiamo regalato al Comune. Restavano però un mucchio di schegge (ne ho ancora circa 90 quintali nel mio magazzino) e così ho iniziato a pensare se quei resti di morte non potevano diventare qualcosa di vivo». Il prodotto consiste in alcune centinaio di opere, che ben si possono classificare nel grande filone d’arte cristiana detto “Vangelo per immagini”.  

Adriano Campiello nacque a Vicenza nel 1936, fu sacerdote nel 1960, in servizio ad Araceli e poi a Posina dal 1961 al 1968 (…) ove nel granaio della canonica aveva avviato la sua produzione, e ove ci mostrò la sua mano con un dito amputato per le ferite conseguite ad un suo recupero inesploso. L’azione artistica di don Adriano non è consistita nella manipolazione di “oggetti ritrovati” (che sarebbe già indicazione d’una fortunata stagione artistica contemporanea), quanto invece nel riconoscimento d’immagini e scene risultanti dal loro assemblaggio: una sorta di operazione proiettiva derivante dalla contemplazione spirituale. Così sono apparsi scenari marini o montani, animali e profili di personaggi profetici. Scene evangeliche spesso meditate e rappresentate sono l’Annunciazione, la Natività e la Crocifissione.  Quei materiali, scrisse l’A., «Da strumenti di morte sono diventati oggetti di vita, da strumenti di odio ad oggetti d’amore, da strumenti di guerra ad oggetti di pace». Trent’anni fa, il nostro vescovo-cultore d’arte, Pietro Nonis, scrisse: «Don Adriano sta componendo, strofa dopo strofa, un poema sinfonico al quale concorrono il ferro e il cuore, la guerra e lo spirito di pace. (…) Guardando le schegge egli pensò di accostarle l’una all’altra, componendole con la forza della fantasia e la memoria del cuore, in raffigurazioni che esprimessero temi e problemi umani e religiosi, simbolici e realistici». Adriano Campiello, dietro ad uno “stile pratico”, dietro ad un fare quasi beffardo, nascondeva un amore per la cultura: «Leggo tanto di notte, fino alle due. E se non posso impedire al mio corpo di invecchiare, non voglio che la mia anima diventi vecchia. Mi gusto i filosofi e i letterati, Manzoni e i dialoghi di Platone».  Finché le condizioni di vita e salute glielo permisero, non abbandonò quell’amore per l’arte. (…) Qualche settimana fa l’ho infine incontrato all’ospedale di San Bortolo a Vicenza, smagrito e sperso. Somigliava molto alle sue schegge contorte. Ma tutta la sua poesia rimane, solidamente, stagliandosi nella Luce. Da quei contorni, come proiezione di ombre cinesi, i suoi amici del Vangelo ora gli sono vicini.

Gino Prandina

(riprod. riservata)

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