Albert Von Keller La resurrezione della figlia di Giairo», 1866, olio su tela, Nuova Pinacoteca,Monaco.
13a DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (anno B)
L’arte (G.Prandina)
Albert Von Keller, pittore Svizzero vissuto in Germania, è un pittore visionario, che rende nella nitidezza delle sue opere i leggeri moti dei sentimenti, gli ambienti, il clima, il sapore degli eventi. Tra i fondatori del movimento artistico della Secessione di Monaco (1892), l’A. è affascinato da due fenomeni sociali e storici: il movimento femminista e i fenomeni psicologici, (in quel periodo si sviluppavano gli studi sulla psicanalisi, l’ipnosi, l’isteria e il sonnambulismo). Nella prima versione dell’opera, ambientata nella sala sepolcrale, l’A. fissa l’istante in cui la liturgia del compianto sta per concludersi, e la bara è già aperta (1° versione). Gesù irrompe nella scena interrompendo l’ineluttabile: sembra davvero guidato da qualcosa di “altro” assai potente che lo guida (notiamo la rigidità delle dita e della postura). Nella seconda versione, la ragazzina che Gesù prende per mano riportandola alla vita, ha uno sguardo ipnotico, come di chi non sia del tutto risvegliato.
Giairo si era prostrato ai piedi di Gesù supplicandolo «con insistenza: “La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva”». È la prima volta che un responsabile della religione ebraica compie pubblicamente tale gesto, dettato dalla disperazione di un padre in cerca d’aiuto per la figlia dodicenne che «è agli estremi» (letteralmente dal testo greco). Ancor oggi nelle comunità ebraiche si entra nella maturità religiosa con la celebrazione detta «bat mitzvah» (figlia del precetto) per le ragazze al compimento di dodici anni più un giorno e «bar mitzvah» (figlio del precetto) per i ragazzi al compimento dei tredici anni più un giorno. Gesù decide subito di andare con lui. Giunti nei pressi «dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: “Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?”». Ma Gesù rincuora il papà: «Non temere, soltanto abbi fede!». Gesù con tenerezza prende la mano della ragazza, quasi per aiutarla ad alzarsi dopo il sonno e le ordina: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». Questa, dal pallore cadaverico – così inquietante nella prima versione dell’opera – nella seconda scena si sta riprendendo dal sonno ed è già sollevata dal catafalco (il tavolo funebre) sul quale era stata adagiata, avvolta dalle bende e dal bianco sudario. L’adolescente ha appena aperto gli occhi e guarda fisso innanzi a sé. I genitori, increduli e terrorizzati, si sostengono a vicenda abbracciandosi. Due donne si coprono la faccia, un’altra si mette le mani sul volto, una terza tende il braccio verso la fanciulla. C’è un misto inquietante di emozioni: chi ancora sta piangendo la defunta e non s’è ancora accorto che s’è risvegliata, e chi con gli occhi fuori delle orbite è preso da stupore e incredulità. Tre corone d’alloro in primo piano, sembrano rendere gloria a Dio per il mistero della vita, della morte e della resurrezione. San Girolamo si augura: «Che Gesù voglia toccare anche noi, e subito ci metteremo a camminare».
Intro
Vengono raccontati due miracoli di Gesù ad incastro, uno dentro l’altro. Il messaggio è infatti complementare. Si tratta di due donne: una all’inizio della sua vita, l’altra al termine di lunghe sofferenze che la sfiniscono. Né l’una né l’altra possono più essere salvate dagli uomini (vv. 23 e 26). Ma sia l’una che l’altra saranno salvate dall’azione congiunta della forza che emana da Gesù e dalla fede: per la donna la propria fede, per la bambina la fede di suo padre (vv. 34 e 36). Bisogna notare soprattutto che la bambina ha dodici anni (v. 42) e che la donna soffre da dodici anni (v. 25). Questo numero non è dato a caso. C’è un grande valore simbolico poiché esso è legato a qualcosa che si compie. Ci ricordiamo che Gesù fa la sua prima profezia a dodici anni (Lc 2,42 e 49). Gesù sceglie dodici apostoli, poiché è giunto il tempo. Significano la stessa cosa le dodici ceste di pane con le quali Gesù sfama i suoi discepoli (Mc 6,43). E la fine dei tempi è simboleggiata dalle dodici porte della Gerusalemme celeste (Ap 21,12-21). Così come la donna dell’Apocalisse (immagine di Maria, della Chiesa) è coronata da dodici stelle (Ap 12,1). Senza parlare dell’albero della vita originale che si trova, in un parco, al centro della città e dà dodici raccolti. E quando sappiamo che il giorno per Gesù conta dodici ore (Gv 11,9) capiamo che i nostri due miracoli non sono semplici gesti di misericordia, ma che nascondono una rivelazione: essendo giunto il tempo, l’umanità peccatrice (Gen 3,12) è liberata dai suoi mali. Gli uomini non possono fare nulla per lei, e lo riconoscono (v. 35), ma per Dio nulla è impossibile (Lc 1,37). Gesù non chiede che due cose: “Non temere, continua solo ad aver fede” (v. 36).
Il vangelo
Mc 5,21-43 Fanciulla, io ti dico: Àlzati!
Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.
E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».
Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.
Le parole
Gesù è sempre sereno e consapevole: in mezzo alla folla, di fronte alla donna che gli si accosta nascondendosi o accanto alla pena di Giàiro per la morte della figlia. Gesù è attento, premuroso, nelle parole come nel silenzio imposto; tutto di lui stupisce, non solo il segno prodigioso compiuto lasciando sfiorare il proprio mantello o toccando la mano della fanciulla morta. La donna e Giàiro si gettano entrambi ai suoi piedi, con dolore e fiducia.
Malattia. Una donna malata, da sempre e inutilmente curata, si accosta e si nasconde alle alle spalle di Gesù, temendone lo sguardo, impaurita e tremante per il tentativo di rubargli la guarigione. Gesù invece si volta, la cerca in mezzo alla calca, la individua e ne addita la fede alla folla la fede esemplare. Non solo le dona la guarigione, ma le parla volto a volto. L’incontro personale con Gesù è un miracolo forse ancora più grande.
Eusebio di Cesarea nella sua Storia Ecclesiastica, (324), scrive di una statua del Salvatore in bronzo voluta in segno di gratitudine dalla donna guarita da Gesù, collocata davanti alla sua casa nella città di Paneas o Cesarea di Filippo e vista personalmente dall’autore stesso. “Su un alto masso davanti alla porta di casa, già abitazione dell’emorroissa, si erge una statua di bronzo di una donna che piega il ginocchio, con le mani protese nell’atteggiamento di persona che implora; dirimpetto ad essa, si erge un’altra immagine della medesima materia riproducente un uomo in piedi, che splendidamente avvolto in un manto, tende la mano alla donna… Si dice che tale statua raffigura Gesù, ed è rimasta fino ai nostri giorni; l’abbiamo veduta con i nostri occhi, nel nostro soggiorno in quella città” (Eusebio, Storia Ecclesiastica VII, 18).
La morte della sua piccola schianta il cuore del padre, ma Giàiro – non i presenti che passano con disinvoltura dallo falso strepito del pianto alla derisione sarcastica – crede a Gesù che gli chiede di continuare ad aver fede. Per Gesù il sonno è prossimo alla morte, perché entrambi premessa della vita portata dall’ordine di risvegliarsi e risuscitare gridato nella lingua materna dell’aramaico: talità kum: alzati!
Tre rianimazioni di morti compiute da Gesù durante la vita pubblica sono raccontate nei Vangeli: il figlio della vedova di Nain, la figlia di Giàiro, l’amico Lazzaro di Betania.
Ma Gesù risorgendo dai morti non è tornato alla vita di prima, come la figlia di Giàiro, il figlio della vedova e Lazzaro di Betania, che sono stati da lui rianimati. Non è tornato indietro; è andato avanti.
La fede fa incontrare e guarisce, salva e vince la morte. La risposta alla grande domanda su Gesù, verrà alla fine, per bocca del centurione pagano che ne ha comandato l’esecuzione: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”. Anche il Vangelo di oggi ci porta a toccare Gesù e ad essere da lui presi per mano nel solo modo possibile, con la fede che lo riconosce risorto e Signore che dà la vita.
La teologia (H.U. Von Balthasar)
Sap 1,13-15; 2, 23-24; 2 Cor 8, 7. 9.13-15; Mc 5,21-43
Le letture odierne suscitano terribili domande. Cristo guarisce un’ammalata, risuscita una morta. Questa è la sua professione. Ma perché poi, dopo di lui, gli uomini devono ammalarsi di nuovo e tutti devono morire? Dio vuole la morte? Se nulla cambia in questo mondo, per che cosa Cristo è venuto? Dal lungo racconto evangelico di due miracoli intrecciati consideriamo solo poche parole. Della figlia del capo della sinagoga certamente morta secondo i nostri concetti dice Gesù: «La bambina dorme soltanto», e viene deriso. A riguardo della donna che perdeva sangue e che gli tocca il mantello mentre la folla lo stringe, egli domanda: «Chi mi ha toccato il mantello?», e viene per questo ottusamente fissato dai suoi discepoli. Di fronte alla morte corporale egli parla di sonno: lo farà un’altra volta a riguardo del suo amico Lazzaro (Gv 11,11). La vera e propria morte, che l’Apocalisse chiama la «seconda» (definitiva) morte, è per lui qualcosa di totalmente diverso. D’altra parte la malattia (che per gli ebrei era un preludio della morte) non è per lui una piccolezza insignificante. Per guarirla deve «uscire da lui una forza» (in Luca ciò avviene in tutte le guarigioni: 6, 19). Egli definisce sé stesso «la vita» (Gv 11, 25; 14, 6), e questa vita deve irradiare le sue energie per ravvivare la morte o chi vi è incline.
2. Solo di qui si possono comprendere le affermazioni della prima lettura: «Dio non ha creato la morte». Ciò viene ripetuto: «Il regno della morte non ha potere sulla terra, perché la giustizia è immortale». La presenza della morte nel mondo viene attribuita all’invidia del diavolo. Come può dirlo il sapiente quando ben sa che tutti, giusti e ingiusti, devono morire? Egli distingue, come Gesù, una duplice morte: una naturale, data con la finitezza dell’esistenza, e una sovranaturale, evocata dall’antitesi a Dio degli uomini. Pensiamo alle misteriose parole di Gesù, qui senz’altro illuminanti: «Chi crede in me vivrà anche se muore», e la continuazione non le contraddice: «Chiunque vive e crede in me non morrà in eterno» (Gv 11, 26). Se Dio ha creato l’uomo finito, l’uomo con i suoi peccati ha creato la vera seconda morte.
3. «Povero per voi». Superare quest’opera distruttiva dell’uomo non è per Dio una piccolezza. La seconda lettura lo dice: «Colui che era ricco divenne per voi povero per arricchirvi con la sua povertà». Egli ha vinto la nostra morte non come onnipotenza, ma discendendo nell’impotenza della morte. Solo da dentro si poteva vincere questa seconda morte, solo con la forza divina che usciva da Gesù perché penetrasse in noi sulla croce e nell’eucaristia. Paolo vorrebbe che noi imitassimo questo almeno da lontano, dando ai bisognosi della nostra forza materiale tanto da far nascere una «eguaglianza», come si addice al nostro sentimento fraterno. L’esempio di Gesù che dalla più colma ricchezza è disceso nella più estrema povertà deve brillare davanti a noi almeno come (insuperabile!) ideale.
Esegesi (E.Bianchi)
Che cos’è l’impurità? Quando una persona è impura, cioè indegna di stare con gli altri e con Dio? Quando una persona è “segnata” da una situazione malefica? E potremmo continuare a porre domande simili o parallele, perché da sempre questi interrogativi emergono nei nostri cuori nelle differenti situazioni della nostra vita. E le risposte che noi esseri umani abbiamo dato, e magari ancora diamo, non sempre riflettono la volontà del Creatore, i sentimenti di Dio. Purtroppo le vie religiose tracciate dall’umanità spesso riflettono non il pensiero di Dio, ma sono piuttosto il frutto di sentimenti umani per i quali si sono trovate giustificazioni fonte di alienazione o di separazione tra gli umani. In questi percorsi, il sangue, segno della vita negli animali e negli umani, ha attirato fortemente l’attenzione su di sé. Ognuno di noi è nato nel sangue che fluisce dall’utero della madre e ognuno di noi muore quando il suo sangue non scorre più. Ecco dunque, al riguardo, la Legge e le leggi: il sangue che esce da una donna nel mestruo o alla nascita di un figlio la rende impura, così come ognuno quando muore entra nella condizione di impurità, perché preda della corruzione del proprio corpo. Il sangue rende impuri, rende indegni, e questa per una donna è una schiavitù impostale dalla sua condizione secondo la Legge, dunque – dicono gli uomini religiosi – da Dio. La donna impura per il mestruo o per la gravidanza non toccherà cose sante, non entrerà nel tempio (nel Santo) e per purificarsi dovrà offrire un sacrificio; anche chi toccherà una donna impura sarà reso impuro (cf. Lv 12,1-8; 15,19-30), impuro come un lebbroso e chi lo tocca, impuro come un morto e chi lo tocca. Di qui ecco barriere, muri, separazioni innalzati tra persona e persona, ecco l’imposizione dell’esclusione e dell’emarginazione. Certo, “a fin di bene”, per evitare il contagio, per instaurare un regime di immunitas: ma al prezzo della creazione di uno steccato e dell’indegnità-impurità posta come sigillo su alcune persone! Anche le misure di precauzione finiscono per diventare una condanna…
Ma Gesù è venuto proprio per far cadere queste barriere: egli sapeva che non è possibile che il sangue di un animale offerto in sacrificio possa togliere il peccato e rendere puri, mentre il sangue di una donna versato per il naturale ciclo mestruale o il corpo di un morto di cui occorre avere cura possano generare impurità, indegnità di stare con gli altri e davanti a Dio. Per questo i vangeli mettono in evidenza che Gesù non solo curava e guariva i malati, gli impuri, come i lebbrosi o come le donne colpite da emorragia, ma li toccava e da essi si faceva toccare. Gesù abolisce ogni sorta di sacro, poiché egli non era “sacro” come i sacerdoti, essendo un ebreo laico, non di stirpe sacerdotale, e poiché vedeva nelle leggi della sacralità una contraddizione alla carità, alla relazione così vitale per noi umani. Amare l’altro vale più dell’offerta a Dio di un sacrificio (cf. Mc 12,33; 1Sam 15,22), essere misericordiosi è vivere il precetto, il comandamento dato dal “Dio misericordioso (rachum) e compassionevole (channun)” (Es 34,6). In Gesù c’era la presenza di Dio, dunque lui era “il Santo di Dio” (Mc 1,24; Lc 4,34; Gv 6,69), ma egli non temeva di contrarre l’impurità; al contrario, egli proclamava e mostrava che la santità di Dio santifica anziché rendere impuri, consuma e brucia il peccato e l’impurità, perché è una santità che è misericordia (cf. Os 11,9: “Io sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò da te nella mia ira”).
Per questo Gesù lasciava che i malati lo toccassero, avessero contatto con il suo corpo (cf. Mc 6,56; Mt 14,36), per questo egli toccava i malati: tocca il lebbroso per guarirlo (cf. Mc 1,41 e par.), tocca gli orecchi e la lingua del sordomuto per aprirli (cf. Mc 7,33), tocca gli occhi del cieco per ridargli la vista (cf. Mc 8,23.25), tocca i bambini e impone le mani su di loro (cf. Mc 10,13.16 e par.), tocca il morto per risuscitarlo (cf. Lc 7,14); e a sua volta si lascia toccare dai malati, da una prostituta, dai discepoli, dalle folle… Toccare, questa esperienza di comunicazione, di con-tatto, di corpo a corpo, azione sempre reciproca (si tocca e si è toccati, inscindibilmente!), questo comunicare la propria alterità e sentire l’altrui alterità… Toccare è il senso fondamentale, il primo a manifestarsi in ciascuno di noi, ed è anche il senso che più ci coinvolge e ci fa sperimentare l’intimità dell’altro. Toccare è sempre vicinanza, reciprocità, relazione, è sempre un vibrare dell’intero corpo al contatto con il corpo dell’altro. Le due azioni di Gesù riportate da Marco nel brano evangelico di questa domenica sono unite tra loro proprio dal toccare: Gesù è toccato da una donna emorroissa e tocca il cadavere di una bambina. Due azioni vietate dalla Legge, eppure qui messe in rilievo come azioni di liberazione e di carità. Questo toccare non è un’azione magica, bensì eminentemente umana, umanissima: “Io tocco, dunque sono con te!”. Mentre Gesù passa con la forza della sua santità in mezzo alla gente, una donna malata di emorragia vaginale pensa di poter essere guarita toccando anche solo il suo mantello, il tallit, lo scialle della preghiera. Ciò avviene puntualmente, e allora la donna, impaurita e tremante, nella convinzione di aver fatto un gesto vietato dalla Legge, un atto che rende impuro Gesù, una volta scoperta scoperta confessa “il peccato” da lei commesso. Ma Gesù, che con il suo sguardo la cerca tra la folla, udita la confessione le dice con tenerezza e compassione: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”. Egli si comporta così non per infrangere la Legge, ma perché risale alla volontà di Dio, senza fermarsi alla precettistica umana. E se Dio era sceso per liberare il suo popolo in Egitto, terra impura, abitata da gente impura, anche Gesù sente di poter stare tra impuri e di poterli incontrare, dando loro la liberazione. Per questo egli ha sentito uscire da sé “un’energia” (dýnamis) quando la donna l’ha toccato, perché la sua santità passava in quella donna impura. Subito dopo Gesù viene condotto nella casa del capo della sinagoga Giairo, dove giace la sua figlioletta di dodici anni appena morta. Portando con sé solo Pietro, Giacomo e Giovanni, appena entrato in casa sente strepito, lamenti e grida per quella morte; allora, cacciati tutti dalla stanza, in quel silenzio prende la mano della bambina e le dice in aramaico: “Talità kum”, “Ragazza, io ti dico: Alzati!”. Anche qui la santità di Gesù vince l’impurità del cadavere, vince la possibile corruzione e comunica alla bambina una forza che è resurrezione, possibilità di rimettersi in piedi e di riprendere vita. Nella sua attenzione umanissima, poi, Gesù ordina che a quella bambina sia dato da mangiare, quasi che lei stessa abbia faticato per rispondere alla santità di Gesù, il quale le comunica quell’energia divina di cui è portatore.
– Toccare l’altro è un movimento di compassione;
– toccare l’altro è desiderare con lui;
– toccare l’altro è parlargli silenziosamente con il proprio corpo, con la propria mano;
– toccare l’altro è dirgli: “Io sono qui per te”;
– toccare l’altro è dirgli: “Ti voglio bene”;
– toccare l’altro è comunicargli ciò che io sono e accettare ciò che lui è;
– toccare l’altro è un atto di riverenza, di riconoscimento, di venerazione.
(E.Bianchi)
I Padri
1. I medici e il medico
La sua fede arrestò in un istante, come in un batter d’occhio, il flusso di sangue che era sgorgato per dodici anni. Numerosi medici l’avevano visitata moltissime volte, ma l’umile medico, il Figlio la guardò soltanto un momento. Spesso, quella donna aveva profuso forti somme per i medici; ma all’improvviso, accanto al nostro medico, i suoi pensieri sparsi si raccolsero in un’unica fede. Quando i medici terreni la curavano, ella pagava loro un prezzo terreno (cf. Mc 5,26); ma quando il medico celeste le apparve, ella le presentò una fede celeste. I doni terrestri furono lasciati agli abitanti della terra, i doni spirituali furono elevati al Dio spirituale nei cieli.
I medici stimolavano coi loro rimedi i dolori causati dal male, come una belva abbandonata alla sua ferocia. Cosí, per reazione, come una belva inferocita, i dolori li diffondevano dappertutto, essi e i loro rimedi. Quando tutti si affrettavano di sottrarsi alla cura di quel dolore, una potenza uscí, rapida, dalla frangia del mantello di Nostro Signore; colpí con forza il male, lo bloccò e s’attirò l’elogio per il male vinto. Uno solo si prese gioco di quelli che s’erano presi gioco (di lei) per molto. Un solo medico divenne celebre per un male che parecchi medici avevano reso celebre. Proprio quando la mano di quella donna aveva distribuito grandi cifre, la sua piaga non ricevette alcuna guarigione; ma quando la sua mano si tese vuota, la cavità si riempi di salute. Finché la sua mano era ripiena di ricompense tangibili, essa era vuota di fede nascosta, ma quando si spogliò delle ricompense tangibili, fu ripiena di fede invisibile. Diede ricompense manifeste e non ricevette guarigione manifesta; diede una fede manifesta e ricevette una guarigione nascosta. Sebbene avesse dato ai medici il loro onorario con fiducia, non trovò per il suo onorario una ricompensa proporzionata alla sua fiducia; ma quando diede un prezzo preso con furto, allora ne ricevette il premio, quello della guarigione nascosta…
E coloro che non erano stati capaci di guarire quest’unica donna coi loro rimedi, guarivano frattanto molti pensieri con le loro risposte. Nostro Signore, invece, capace di guarire ogni malato, non voleva mostrarsi capace di rispondere anche ad un solo interrogativo; conosceva quella risposta, ma descriveva in anticipo coloro che avrebbero detto: “Tu, con la tua venuta, dai testimonianza di te stesso; la tua testimonianza non è vera” (Gv 8,13). La sua potenza aveva guarito la donna, ma il suo parlare non aveva persuaso quella gente. Eppure, per quanto la sua lingua restasse muta, la sua opera risuonava come una tromba. Col suo silenzio soffocava l’orgoglio arrogante; con la sua domanda: “Chi mi ha toccato?” (Lc 8,45) e con la sua opera, la sua verità era proclamata.
Se non ci fosse che un senso da dare alle parole della Scrittura, il primo interprete lo troverebbe, e gli altri uditori non avrebbero piú il lavoro pesante della ricerca, né il piacere della scoperta. Ma ogni parola di Nostro Signore ha la sua forma, e ogni forma ha molti membri, e ogni membro ha la sua fisionomia propria. Ciascuno comprende secondo la sua capacità, e interpreta come gli è dato.
E’ cosí che una donna si presentò a lui e che la guarí. Si era presentata davanti a parecchi uomini che non l’avevano guarita avevano perduto il loro tempo con lei. Ma un uomo la guarí, quando il suo volto era girato da un’altra parte; egli biasimava cosí coloro che, con grande cura, si volgevano verso di lei, ma non la guarivano: “La debolezza di Dio è piú forte degli uomini” (1Cor 1,25). Sebbene il volto umano di Nostro Signore non poté guardare che da una sola parte, la sua divinità interiore aveva occhio dappertutto poiché vedeva da ogni lato.
(Efrem, Diatessaron, VII, 6, 19-23)
2. La guarigione dell’emorroissa
«Colei che veniva a me, ha ricevuto la forza,
poiché un segreto vigore mi ha sottratto.
Perché, Simone figlio di Giovanni, tu mi dici
che una immensa folla addosso mi si accalca?
Essi non toccano la mia divinità.
Ma questa donna, nella veste visibile
ha conquistato la mia divina natura.
in modo manifesto, ha ottenuto la salute
gridandomi: Salvami, Signore! «.
Vedendosi non rimasta inavvertita,
cosí tra sé la donna rifletteva:
«Mi farò scorgere dal mio salvatore, Gesú,
adesso che sono purificata dalla mia impurità.
E davvero adesso non ho piú paura:
infatti io compivo questo per suo volere.
Ho fatto solo quel ch’egli desiderava:
son corsa con la fede Incontro a lui
dicendogli: Salvami, Signore!
Non ignorava certo il Creatore
quel ch’io facevo, bensí, pietoso,
egli mi ha sopportata. Solo toccandolo,
sono stata arricchita di forza, perché lui
s’è lasciato spogliare volentieri.
Cosí ora è sparita la paura d’esser vista,
e ora davanti a Dio grido ch’egli è il medico
degli infermi e il salvatore delle anime, signore
della natura, al quale io dico: Salvami, Signore!
A te ho ricorso, mio buon medico,
l’obbrobrio mio rigettando.
Non levar contro di me tua collera,
non adirarti contro la tua serva:
solo per tuo volere io ho agito,
poiché, ancor prima di pensare all’atto,
presente, m’assistevi e m’incitavi a farlo.
Sapevi che il cuor mio gridava: Salvami, Signore!».
«Donna, coraggio ormai che per la fede
e col mio assenso tu mi hai spogliato.
Rassicurati ora, perché non è per farti biasimare
che in mezzo a tanta gente t’ho condotto,
ma per dar loro sicurezza: quando mi si spoglia
io mi rallegro, non muovo alcun rimbrotto.
Resta in buona salute, tu che in tutto il tuo male
mi gridavi: Salvami, Signore!
Non opera mia è questo, ma della tua fede.
Molti infatti hanno toccato la mia veste,
senza però ricever forza, perché non avevano fede.
Tu che con fede grande mi hai toccato,
hai raccolto il frutto della salvezza;
ecco perché davanti a tutti ti ho condotta,
per farti dire ancora: Salvami, Signore!».
O Figlio di Dio, incarnato per noi per amor dell’umanità,
come hai liberato la donna dal suo sangue,
cosí libera me dai miei peccati, tu che sei senza peccato.
Per le preghiere e le suppliche dei santi,
inclina il cuore mio o sole potente,
alla meditazione incessante della tua parola,
cosí che tu possa salvarmi.
(Romano il Melode, Hymn., 33, 15-21)
3. Cristo ha vinto la morte
“Giunto poi alla casa del capo della sinagoga e veduti i sonatori di flauto e molta gente che faceva grande strepito, cominciò a dire: «uscite, perché la fanciulla non è morta, ma dorme». E quelli lo deridevano” (Mt 9,23-24). Durante la tempesta riprende dapprima i discepoli; cosí, qui, dissipa anzitutto il turbamento che era nell’anima dei presenti e al tempo stesso dimostra che per lui è facile risuscitare i morti. Si comporta nell’identico modo prima di operare la risurrezione di Lazzaro, dicendo: “Lazzaro, l’amico nostro, dorme” (Gv 11,11). Insegna, inoltre, a non temere la morte: essa infatti non è piú morte, ma è diventata sonno. Cristo, infatti, doveva di lí a poco morire, e voleva perciò preparare i discepoli, nella persona di altri, ad aver coraggio e a sopportare pazientemente la sua morte. Da quando egli è venuto sulla terra, la morte è divenuta soltanto un sonno…
A quel tempo non era palese che la morte era diventata un sonno: oggi, invece, questa verità è piú chiara del sole. Cristo non ha risuscitato la tua figliola? Ebbene, la risusciterà con assoluta certezza e con una gloria piú grande. Quella fanciulla, dopo essere stata risuscitata, piú tardi morí di nuovo: ma tua figlia, quando risusciterà, rimarrà per sempre immortale. Nessuno, dunque, pianga piú i morti, nessuno si disperi, né rigetti cosí la vittoria di Cristo. Egli infatti ha vinto la morte. Perché dunque piangi senza motivo? La morte è diventata un sonno. A che pro gemi e ti lamenti? Se i gentili che si disperano sono degni d’esser derisi, quale scusa un cristiano potrà avere comportandosi in modo cosí disonorevole in tali circostanze? Come potrà farsi perdonate tale stoltezza e insipienza, dopo che la risurrezione è stata provata molte volte e in modo evidente durante tanti secoli? Ma voi, come se foste impegnati ad accrescere la vostra colpa, portate qui tra noi donne pagane, pagate per piangere ai funerali e attizzare in tal modo la fiamma del vostro dolore e non ascoltate Paolo che dice: “Quale accordo può esserci tra Cristo e Belial? O quale cosa di comune tra il fedele e l’infedele?” (2Cor 6,15). Gli stessi pagani, che pure non credono nella risurrezione, finiscono col trovare argomenti di consolazione e dicono: Sopporta con coraggio; non è possibile eliminare quanto è accaduto e con le lacrime non ottieni nulla. E tu che ascolti parole tanto piú sublimi e consolanti di queste, non ti vergogni di comportarti in modo piú sconveniente dei pagani? Noi non ti esortiamo a sopportare con fermezza la morte, dato che essa è inevitabile e irrimediabile; al contrario ti diciamo: Coraggio, c’è la risurrezione con assoluta certezza: dorme la fanciulla e non è morta; riposa, non è perduta per sempre. Sono infatti ad accoglierla la risurrezione, la vita eterna, l’immortalità e l’eredità stessa degli angeli. Non senti il salmo che dice: “Torna, anima mia, nel tuo riposo, perché Dio ti ha fatto grazia” (Sal 114,7)? Dio chiama «grazia» la morte, e tu ti lamenti?
(Giovanni Crisostomo, Comment. in Matth., 31, 2)
4. Dio offre misericordia; la disperazione viene dal demonio
Non devi, o uomo, diffidare di Dio e disperare della sua misericordia; non voglio che tu dubiti di poter cambiare in meglio; se il diavolo ti ha potuto trascinare dalle altezze celesti della virtù fino in fondo al baratro del male, quanto piú potrà Dio riportarti al vertice piú alto del bene e non solo rifarti quello che eri, ma anche farti molto piú beato di quanto fossi prima? Non ti scoraggiare e non ti nascondere la speranza del bene perché non ti avvenga ciò che avviene agli empi; non è, infatti, la moltitudine dei peccati che induce la disperazione, ma l’empietà; perciò Salomone disse: “Tutti quelli che giungono al fondo del male, disprezzano” (Pr 18,3). E’ proprio degli empi, dunque, disperare e disprezzare, quando son giunti al fondo del peccato. L’empietà non gli consente di rivolgersi a Dio e di tornare là donde son caduti. Questo pensiero, dunque, che stronca la speranza della conversione, nasce da empietà e come un masso pesantissimo grava sulla cervice dell’anima, la forza a guardare sempre a terra, non le consente di alzar gli occhi verso il suo Signore; ma un animo virile e una mente illuminata deve strappare dal suo capo un peso inimicissimo dell’anima sua, deve cacciare il diavolo che l’opprime e imporsi alla sua anima per dire al Signore cantando le parole profetiche: «Come gli occhi degli schiavi son nelle mani dei loro padroni, come gli occhi della schiava son nelle mani della sua padrona, cosí gli occhi nostri si volgono al Signore Dio nostro, perché abbia pietà di noi. Pietà di noi, Signore, pietà di noi, perché siamo strapieni d’avvilimento» (Sal 122,2). E’ singolare questa dottrina e di celeste filosofia. Dice: «Siamo strapieni d’avvilimento» e ci vuole insegnare che, sebbene siamo ricolmi d’umiliazione a causa della moltitudine dei nostri peccati, i nostri occhi tuttavia si rivolgono al Signore nostro Dio, perché abbia pietà di noi e non finiremo di pregare finché non abbiamo ottenuto il perdono. Questo è proprio dell’anima perseverante, che non tralasci mai di sperare, ma che insista sempre nella preghiera fino a quando ottiene misericordia. E perché tu non pensi di far piuttosto una offesa, chiedendo troppo importunamente una cosa che non meriti, ricordati la parabola del Vangelo e ivi troverai che i peccatori insistenti non sono sgraditi al Signore, il quale, anzi, dice: «Se non lo darà a titolo di amicizia, almeno, per liberarsi da un fastidio, si alzerà e gli darà tutto ciò che gli serve». Renditi conto, allora, o carissimo, che il diavolo insinua la disperazione nella preghiera, proprio per sradicare la speranza nella misericordia di Dio, che è l’ancora della nostra salvezza e il fondamento della nostra vita, guida nel cammino, che porta al cielo, onde l’Apostolo dice: “Per la speranza siamo stati salvati” (Rm 8,24).
(Rabano Mauro, Penitenziale, 4)
5. Cristo è toccato dalla fede
Cominciò a sperare in un rimedio che potesse salvarla: riconobbe che il tempo era venuto e si presentava un medico dal cielo, così si levò per andare incontro al Verbo, e vide che egli era pressato dalla folla.
Ma coloro che lo premono intorno non credono, credono invece quelli che lo toccano. Cristo è toccato dalla fede, è visto dalla fede: non lo tocca il corpo, non lo comprendono gli occhi; infatti non vede colui che non guarda pur avendo gli occhi, non ode colui che non intende ciò che ode, e non tocca colui che non tocca con fede…
Se ora noi consideriamo fin dove giunge la nostra fede e se comprendiamo la grandezza del Figlio di Dio, vediamo che a suo confronto noi non possiamo che toccare la frangia del suo vestito, senza poterne toccare le parti superiori. Se dunque anche noi vogliamo essere guariti, tocchiamo la frangia della tunica di Cristo.
Egli non ignora quelli che toccano la sua frangia, e che lo toccano quando egli è voltato dall’altra parte. Dio non ha bisogno degli occhi per vedere, non ha sensi corporali, ma possiede in se stesso la conoscenza di tutte le cose. Felice dunque chi tocca almeno la parte estrema del Verbo: e chi mai potrebbe riuscire a toccarlo tutto intero?
(Ambrogio, Esposizione del Vangelo secondo Luca, 6, 57-59)
6. Dio è la gloria dell’uomo
Dio è, in verità, la gloria dell’uomo; e l’uomo stesso è il luogo ove Dio opera, il luogho ove si manifesta tutta la sua sapienza e potenza. E come il medico compie la sua opera su coloro che sono malati, cosí Dio si manifesta negli uomini.
(Ireneo di Lione, Contro gli eretici, III, 20, 2)
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A cura di Gino Prandina, fraternità dell’Hospitale e AxA associazioni Artisti per l’Arte Sacra Vicenza, digit: artesacravicenza.org
I commenti teologici sono tratti dai manoscritti di H.U.V.Balthasar e e M.v.Speryr.; esegesi di Bruno Maggioni ed Enzo Bianchi.
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