Rembrandt van Rijn, Incredulità di San Tommaso, 1634, Olio su tela, 53×51, Museo Puskin, Mosca.
Tra i più importanti del periodo aureo della pittura olandese, Rembrandt realizzò numerose immagini
religiose, grazie alla sua profonda conoscenza dei testi biblici e dell’iconografia classica. Anche l’opera
qui raffigurata denota l’uso sapiente del chiaroscuro, il dosaggio della luce di richiamo Caravaggesco, la
teatralizzazione dei soggetti, il realismo senza formalismo, un’evidente e profonda compassione per
l’uomo, la cura meticolosa del dettaglio. Si tratta di una tela di ridotte dimensioni, dipinta nel 1634
forse per una commissione privata, forse come prototipo “dimostrativo” per un’opera di maggiori
dimensioni. L’Incredulità di Tommaso mette al centro la figura di Cristo alleggerita e trasfigurata dalla
luce che da lui s’irradia in tutta la scena. Tommaso, uno dei dodici, menzionato più volte nel Nuovo
Testamento, non c’era quando Gesù apparve nel cenacolo la prima volta. Gli apostoli gli riferirono
dell’incontro, ed egli rifiuta di credergli: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il
mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Otto giorni dopo, secondo Giovanni, Gesù appare di nuovo e invita Tommaso a toccare le ferite. Ora
Gesù gli appare innanzi e gli mostra la ferita vicina al cuore.
Rembrandt interpreta la scena ambientandola in una visione notturna: il cenacolo è immerso nelle
tenebre. Un discepolo sta dormendo; un altro – forse abbagliato dalla luce – gira la testa verso destra.
Due discepoli – a sinistra – interrompono la lettura a cui erano dediti. Lo splendore che emana da Gesù
sembra l’unica fonte di luce, che si riverbera sui volti e sulle cose, definendone i contorni. Anche
Tommaso ne viene investito; lo splendore spirituale del risorto lo raggiunge, lo turba, arretra e rimane
quasi impietrito. I volti che circondano il Risorto – tredici! – sono tutti definiti con diversi moti
dell’animo: curiosità, timore, stupore, adorazione. Tommaso è bloccato in una postura instabile, fra la
curiosità che lo attrae e il timore che lo allontana, e solleva le mani ad indicare adorazione… o è
soltanto un gesto atterrito. Il suo sguardo è diretto al volto del Signore che lo redarguisce invitandolo a
guardare, toccare, soprattutto a superare l’incredulità. Ma nemmeno gli altri disdegnano di puntare gli
occhi su quel corpo che riconoscono come il Cristo di prima… ma non solo. E anche questo genera
stupore, creando una sorta di “sospensione” che cristallizza un istante eternizzato. Gli altri invece non
disdegnano di osservare quel corpo che riconoscono come il Cristo di prima… ma non solo. E anche
questo genera stupore. Questa che si rivela con immediatezza “identità e diversità” è ciò che li confonde.
La loro esperienza visuale non li rassicura: anche ad essi è richiesto un cammino interiore perché la vista
dell’occhio diventi la consapevolezza del cuore. L’autore sembra ricordarci che il dubbio appartiene a
tutti, e a tutti è richiesto il percorso della fede: a Tommaso, agli apostoli, anche quelli oggi. Dal
“vedere” al “guardare”.